La pagina di Enrico Martelloni

Enrico Martelloni

Osvaldo e la Peccatrice: la Tratta d’un Palio (2013)

Il rintocco di Sunto batte le otto del mattino, sotto il cielo di Siena.  Presso il Campo ci saranno le batterie dei cavalli per la “Tratta”. Qui, saranno scelti i barberi per il palio del 2 luglio. Qui sì convien lasciar ogne sospetto; ogne viltà convien che qui sia morta. Solo il coraggio e l’avvedutezza, il sogno e la ragione, l’inganno e il soldo sono le regole della “ carriera”. La vita è il Palio, in tutte le sue sfaccettature e Greta, mia figlia, mi porge un cannocchiale trovato su di un banco: un caleidoscopio. C’è popolo in piazza sul tweed fatto dai mattoni rossi, attorno a Fonte Gaia, in fronte al palazzo del Comune, sparse un poco ovunque; turisti e gente di contrada, con o senza fazzoletto che le contraddistingue. L’ombra del “Mangia” s’allunga e scende lentamente come il sestante segna il tempo solcato da vertiginose rondini in fragorosi canti. I soggetti da trattare sono trentacinque, divisi in batterie. Capitani delle contrade, esperti e addetti ai lavori, mossi da strategie che non mi competono, sceglieranno i dieci cavalli, o barberi. Le batterie sono di sette, otto, e i fantini che montano a “pelo”, indossano zucchino e panni bianchi e neri come la balzana senese. Fuori dell’Entrone, una bandiera bianca segnala che sono pronti. Il botto del mortaretto risponde ed escono quelli della prima batteria col numero di coscia ben segnato, risalgono la curva del Casato per giungere alla mossa. E’ il momento più bello, il compimento di un anno. Come se tu fossi a sciogliere un nodo tanto atteso, e come seta scivola giù su quell’alcova lasciando nudo te stesso da struggente attesa. Si parla ci s’abbraccia tra gli amici e si sorride. Magari è molto tempo che non ci si vede, oppure con qualcuno s’è preso un caffé proprio ieri, ma che importa. Il mossiere chiama i cavalli tra i canapi. Li riconosci perché ti sei fatto dare la lista in Comune dove c’è scritto il numero di coscia e il nome del cavallo, poi quello del fantino. Eccoli, sono tra i canapi! Un rullo di tamburo e giù il canape appena quello di rincorsa s’avvia ad entrare. Al primo San Martino scivola via sul tufo un fantino, un tonfo sordo seguito dall’Ohhh della gente ancora più interessata allo spettacolo. Corre, così, “ scossa” Peccatrice, via libera tra gli altri a recuperare il primato. Un giro intero, e poi giù un altro. Ora fermali! Entrambi dopo tre giri! Osvaldo vigila in testa e dietro, lei che è bravina alla curva del Casato e dopo sei giri, lui fa il signore e la lascia passare per pochino. Poi torna intesta a Fonte Gaia e son dieci giri. Quelli non si fermano per nulla, continuano sul tufo a perdifiato che fanno? S’amano? Ma se appena si sono conosciuti…Quindici giri e ancora giù a dargli. Sorridono i turisti, s’alzano gli applausi poi lei si ferma a San Martino, lui si gira un po’ e la saluta, poi si ferma su al Casato, dopo le comparse. Nessuno dei due si ritroverà la sera tra i cavalli assegnati alle contrade, però almeno mi piace raccontarvi che si sono incrociati tra la folla.

 

Un Palio a memoria d’uomo (2007)

Qualcuno ha detto, correndo su per la Galluzza, per andare a riscontrare il Palio, ad abbracciare un amico, incredulo e felice, a dare di gamba su per la via, che questo, è stato un Palio che non si ricordava a memoria d’uomo, almeno nell’Oca. Di sicuro per me lo è stato: di tutti quelli che ricordo d’aver visto vincere, nessuno come questo mi ha emozionato di più, strappato, per pochi metri di terra al Nicchio.
Certe cose bisogna sentirle, non c’è nulla da fare: il cuore… ha sempre ragione! Bisogna fidarsi delle percezioni; permettere che crescano fin al suo limite possibile, senza che diventino illusione. Per un mese, posso giurarvi, mi era accaduto più volte di vedere, come un miraggio, primo all’arrivo, i nostri colori. Pazzia! Se i senesi per questo giochino stupendo sono riconosciuti pazzi, sia pur avendo santo Savio tra i loro, eccomi pazzo tra i pazzi, perché non riconosco che amore per questa città e per l’Oca in particolare. Vedete anzitutto con quanta preveggenza la natura, madre e artefice del genere umano, ha badato perché non manchi in nessun luogo, per condimento, un pizzico di pazzia; e qui con più riguardo ne ha messa. Chi, se non i giovani mancano di saggezza e sono presi dalle passioni più che dal ragionare! Chi vince rinasce, torna giovane perciò non ragionevole. Si spiega così per me, perché in questa città, pazzi si è sempre, e più di frequente in Fontebranda. Dal giorno dell’estrazione, ho visto nei miei occhi, spuntare dall’orizzonte di tufo dell’ultimo Casato, Fedora Saura, la cavallina grigia andata in sorte all’Oca e il suo fantino, primi verso l’arrivo. La rivedo ancora, e ancora di nuovo avanti agli altri, sfiorare sopra la pista, come un vascello volante sul pelo del mare, apparire d’improvviso a sconvolgere i marinai. L’albero maestro era il nerbo, la prua, il muso di Fedora che puntava dritta verso di me. L’immagine tremebonda di un miraggio avanti agli occhi; il galoppo, l’incitamento della folla, senza suoni, né rumori. Pazzia! Non per l’effetto morgana, così si chiamano certi miraggi, ma per un finale esasperato e soprattutto, avverato. “Oh! Se gli Ocaioli si astenessero completamente da ogni relazione con la sapienza e vivessero in mia compagnia! Non ci sarebbe alcuna vecchiaia affatto, ed essi, nella loro felicità, godrebbero eterna giovinezza!” Così, Erasmo, non io. Non ho più voce, mi ci sono voluti tre giorni per riprendermi, da cene e ore piccole, con le spalle indolenzite, per aver fatto vedere a mia figlia tutte le batterie e le prove, per aver gioito senza criterio, contegno, regole di sobrietà, trascinato senza accorgermene, come adolescente incontenibile. Mi ero sacrificato docilmente per lei, per quegli occhi che vedevano il Palio con meravigliata attenzione. Che Palio, che gioia, eppure credete ero un cencio, non ne posso più, ho dormito poco o punto. Ho visto la carriera dalla Trieste, dallo schermo gigante. Gli attimi dell’attesa per la partenza, hanno creato quasi un’insostenibile tensione, per tutti. La mossa si era protratta molto, due le partenze false. Nella prima eravamo anche partiti bene! Alla terza, via! Dall’esterno si raggiunse primi San Martino. Io mi alzai dalla sedia, fermo, senza riuscire a spiccare un salto, lanciare un grido, un’imprecazione fino a dopo il terzo San Martino; poi non gliel’ha feci più ed esplosi folle tra i folli, incitai a perdifiato. Un sussulto al terzo Casato, un tonfo al cuore come se avessi picchiato da qualche parte. Formidabile il Tittìa a scansare il cavallo scosso della Lupa, che nel frattempo trotterellava in senso contrario. Per un attimo quel ritmo sincopato che aveva condotto per due giri e mezzo in testa la contrada di Fontebranda si era interrotto, permettendo al Nicchio, stringendo bene la curva, di riprendere quasi Fedora. A quel punto ecco il miraggio riapparire ai miei occhi, e sdoppiarsi dall’immagine dello schermo, tra le schegge di tufo alzato dagli zoccoli dei barberi in lotta, a scolpire momenti indimenticabili di gloria, testa, testa, Nicchio e Oca, vicini al trionfo o ad una storica purga! Oca! Oca! Con un colpo d’ali Fedora Saura restò in testa e vinse. Lo vidi allo schermo. Lo crederono i miei occhi che sconfissero Morgana; non più il cronista poco dopo lo scoppio del mortaretto. Gridando, mentre correvo fuori, mi colse il sospetto che il cuore si era sbagliato di un soffio. Gioia per il Nicchio. Accorse la nostra rivale. Salii da Santa Caterina e girai su per la Galluzza “No, è Nicchio!” sentii ripetere. Mi fermai incredulo, la gente impazzita di felicità, ancora non sapeva e festeggiava tirando fuori bandiere e tamburi come la nostra avversaria, mi dissero, in Salicotto. Difficile far capire che era stata esposta fuori delle trifore del palazzo comunale, la bandiera di porta Pispini alla gente per le strade. Attorno al drappellone c’erano le bandiere del Nicchio e della Torre. Qualcuno lo capì e restò sgomento, altri chiesero conferma. Mi girai verso la tv ed entrai nel locale a fianco vicino, per guardare meglio. A quel punto l’immagine sdoppiata dei miei sensi si ricompose: quello dello schermo tv, con quella del cuore, che non si era sbagliato. Era Oca, non c’erano dubbi. Ora, La bandiera esposta era quella giusta: la nostra!

Il profumo dei giorni del Palio (2007)

Da quando, ad occupare l'ultimo posto disponibile delle trifore comunali, è apparsa la bandiera del nostro paperone, mi domando sorpreso: possibile che questi giorni abbiano un profumo tutto loro? Un profumo che li distingua dagli altri? Riaffiorato per caso nell’aria, portato da un soffio di vento inatteso che, lesto più della luce, mi ha catturato il pensiero e l'olfatto. Ed ecco che una miriade di ricordi esplode portando con sé nitidi, unici, vicinissimi, giorni scordati, volti, gesti di un tempo lontano che è stato e torna ad essere. E’ l'odore del palio che torna. Cresce nell'attesa, giorno dopo giorno, di questa carriera di luglio; corre su di un fiocco azzurro dell'estate che non tarderà.
Tutto è già cominciato da quasi un mese, dal momento di quell’estrazione.
“Oca, oca!" - esclamò in presa diretta tv, il mio amico Max al cellulare. “Chissà quanta emozione ci sarà stata in piazza ?" subito pensai.
"Oca, oca!" - ripetei, in un tam-tam di messaggi sms agli amici, euforico per la sorte amica.
Ecco improvviso, il profumo di un Palio che non ti aspetti, si espande nell'aria: dai muri delle case, dai tetti, dalle vie della contrada, dalle fresche acque delle fonti. E lentamente ti avvolge:
nei pomeriggi silenziosi scottati dal sole e accarezzati dalle bandiere messe alle finestre.
Verrà poi la "tratta" del 29, il cavallo in contrada ed io che lo seguirò salutando le amiche e gli amici di sempre. Mi batterà forte il cuore, quando alla prima prova lo accompagnerò in piazza e annuserò a pieni polmoni il tufo bagnato e calpestato. Riandrò col pensiero alle glorie di Siena ai suoi figli prediletti come Duccio, Simone Martini, il Beccafumi, il Sodoma.Tutti testimoni della sua grandezza.
Il palio mi sembra una grande alcova, un talamo profumato, dove i preliminari sono essenziali. Le contrade compongono la corolla, la piazza il fiore vero e proprio e la vittoria appare il compimento di un’impresa e la rinascita.
In mezzo ai "Come va?" e "Cosa fai?", s’intrecceranno nuove discussioni, sempre le stesse ed un’attesa spasmodica che è l’essenza più profonda di questo stare insieme.

Grazie babbo (2005)

Non sapevo di essere un ocaiolo extramoenia fino a quando, nella primavera del 2003 ho scoperto questo sito.
Mi chiamo Enrico, ho 41 anni, sono fiorentino e vivo, quasi da sempre, a Prato. Eppure amo il Palio, Siena e l’Oca da quando ero bambino. Questa passione l’ho ereditata da mio padre e lui dal suo, che veniva a Siena da Firenze in treno per il grande evento. Cosa mi spinga ad amare tutto questo non lo so, come mai batta così forte nel mio petto la passione per il Palio è difficile spiegarlo. Vero è, che questo amore esiste. E qui mi è data l’occasione per raccontare a voi ed un po’ anche a me stesso la storia di questa passione.
Sono venuto a Siena per la prima volta in un pomeriggio d’estate del ‘69, di ritorno da Montalcino, dove con i miei genitori ero stato a trovare una vecchia zia di mio padre, una certa Costanza Capaccioli mi pare. Sapete di quelle vecchie zie apprensive per le quali, quasi tutti, compreso gli ottuagenari sono per lei “piccinini” o “poverini”. Ci snocciolò un rosario che non vi dico….”Hai fatto bene a venire Cecchino, ma se sapessi cosa non è successo…” Aveva più di novant'anni, e secondo lei giustamente tutti erano più “piccini “.
In quel pomeriggio assolato dunque, al ritorno dalla zia, il babbo ci portò a Siena. Parlò alla mamma delle Contrade, indicandole i confini, i colori e i simboli che le contraddistinguono ed i palazzi gentilizi che ne fanno parte. "Ricordo…” disse in mezzo al Campo vuoto ed infuocato “che ero qui, quando nel '48 vidi il Palio per la prima volta. Per dar contro ad un amico del Bruco tenni l’Oca, che da quel momento non lasciò più il mio cuore. Salome’, la cavallina bianca, volava da sola là davanti a tutti, accarezzando il tufo, nella sua corsa trionfale. Danzava Salomé, sulla terra della piazza, incitata dalle grida della gente, disperata o incredula, eccitando gli ocaioli a dismisura fino a portarli ad invadere, festanti, l’anello della carriera appena consumata. Io gridavo come fanno i ragazzi che hanno passione, perché ne avevo. Vibravo come all’amore le prime volte, ebbro di gioia, ma senza riuscire a capire quel che stavo facendo. Adesso invece riconosco, attraverso l’esperienza, che una curva bene accarezzata con la giusta velocità, fra le grida, l’incitamento, il caldo, il sudore, la polvere sollevata e’ un’altra cosa. La mano che tiene le redini del gioco e rallenta la sua risalita per affrontare, precisa, la successiva curva. Per capire certe cose ci vuole tempo. Allora trattenevo il respiro nell’attesa dell’attimo successivo. L’Oca! l’Oca!, ha vinto L’Oca…” continuò ancora per un attimo trasognato e concluse “ e poi sapete…Oh non mi guardavano tutti storto…e li per lì non capivo.. poi vidi che la mia cravatta era amaranto listata di bianco e azzurro!! ”, mamma si mise a ridere.
Io non capivo ancora bene, così piccolo con quelle bretelle che reggevano i calzoni corti e con i sandali Giglio ai piedi, biondo come un putto da Madonna del quattrocento. Mi sforzavo di vedere l’immensa piazza vuota, colma di gente, di cavalli, di bandiere colorate. Giravo su me stesso come il perno di una giostra immaginaria, ondeggiavo. Il riverbero della fonte, i palazzi, i colonnini che incorniciavano il tweed rosso dei mattoni ordinati a lisca di pesce. Sembrava che tutti si muovessero in sincronia, poi ognuno per conto suo, su e giù, avessero ballato e avessero gridato festanti “ Oca, Oca, viva l’Oca….”.
Quello fu il mio primo giorno a Siena e non mi ripresi più…. Mio Padre se la rise quel giorno anche sulla vecchia Simcar che ci riportò a casa, e ce la ridemmo assieme tutte le volte che negli anni successivi mi raccontava quella storia, mentre venivamo a Siena per la grande festa. Nel nostro petto regnava una gioia infinita che l’uno non confessava più di tanto all’altro per pudore. Ma di che cosa poi? Per quelle pazze bandiere e per quei colori? Era la nostra patria, ma chi eravamo noi, fuoriusciti Guelfi o Ghibellini, traditori di un’altra patria di cui in verità il nostro amore era certo? O eravamo dei bischeroni che giocavano con la storia, con una cosa non proprio nostra, ma Toscana perdio! Ancora una volta uniti. Il Palio di Siena, la Nobile contrada dell’Oca, erano la quintessenza del nostro essere, mentre la cucina, le belle merende in quel di Fontebranda o al Grattacielo, riempivano di serenità quei bei momenti passati insieme. Questo gioco è finito qualche anno fa in un’alba qualsiasi di un inverno come tanti. Ma il Palio e l’Oca rimangono per me il più bel ricordo, il più bel rapporto tra padre e figlio. Ora ho una bimba di quattro anni e mezzo, la scorsa estate l’ho portata con me a Siena per la tratta di luglio con trionfale entrata sulle spalle in Fontebranda. E tutto sta per ricominciare…..Stupita e felice come me…
 sempre difficile descriversi, vedere da fuori quanto si è vissuto ed ancor più cercare di spiegarlo agli altri, quando le parole raramente riescono a rappresentare sensazioni, emozioni, passioni della vita. L’innamoramento è il caso classico, ma penso che anche quello che è capitato a me con riguardo a Siena ed al Palio sia molto simile e in egual misura difficilmente spiegabile.


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