un racconto di E. Martelloni prefazione e capitoli precedenti Capitolo IV Il segnale di tregua giunse poco prima del tramonto per raccogliere i feriti, fare il computo delle perdite, stabilire l’incerta sorte della guerra. La battaglia cessò e d’un tratto la terra smise di tremare, i fendenti delle spade di colpire, le frecce e i dardi di piovere dalle nere e luttuose nubi. Sul campo, solo corpi maciullati. Le ossa di questi fracassate, gli occhi fuori delle orbite, tutti inzaccherati, cadaveri e feriti, uomini e bestie, tra sangue e terra, che a quella terra presto tornavano, o per averla difesa, o per aver tentato di conquistarla. Già che, chi era morto o stava per farlo e restituire l’anima all’Altissimo, aveva combattuto con furibonda violenza e valore. In quel momento, solo il canto di una preghiera e la pietà ponevano consolazione a quei disgraziati ed alleviavano il dolore di quella orrida vista. Dietro gli alberi, il tramonto era esangue. Lentamente la terra respirava, del suo fetido alito; uno strato sottile di nebbia, fin poco sopra i corpi dei caduti si era alzato ed esteso all’ultimo diafano chiarore. La notte, finalmente. La notte, che porta con sé, per primo compenso, il riposo. Ristoro di chi, nel giusto, o nell’errore aveva combattuto. Sul campo, le ombre di uomini randagi in cerca dei feriti. “Zitto, trattieni il respiro e…” “Qualcuno ci sta passando vicino…” Disse a voce bassa una prima ombra, la più tozza delle due, nascoste dietro un carro. “…Fingiti morto…” Poi di nuovo “Sfila l’anello, io gli svuoto le tasche, quei denari non gli servono più.”. “Sai cosa gli fanno a quelli che rubano come noi…” Rispose il compare. “Silenzio…passa gente…resta fermo…sdraiati” “Giù!” e si stesero sul punto stesso dove erano, senza guardare, quel che avevano sotto i loro piedi, finché non passarono altri uomini che con le torce in pugno badavano a riconoscere i caduti. “Mi sta fissando! Mi guarda fisso con gli occhi sbarrati. Io… sono pazzo, pazzo a stare qui sdraiato…Le mie labbra sulla sua gota gelida. Voglio fuggire. Via, via da questo cimitero!” Gridò soffocando il suo disgusto. “Ne bacerei cento, se potessi farmi le tasche piene” - beffarda ghignò la prima ombra “Che cosa vuoi che ti facciano, sono morti stecchiti. Metterei anche la notte nel mio sacco se le tasche di questi fossero state fitte di fiorini e preziosi, come astri del cielo e domani mattina prenderei il largo, via, lontano da qui. Continua a fare il tuo mestiere, lesto.”
Simone era in cerca di suo cugino Bartolo. Nel furore della battaglia si erano persi di vista, forse al ponte, forse più in là. Dal colmo della collina, si sarebbero potute vedere in lontananza delle fiammelle girare senza tregua, senza un apparente motivo, come lucciole in fondo ad un prato, o fochi fatui perduti in fondo a quella terra. Bartolo non era rientrato tra le file della compagnia di San Pellegrino e Sant’Antonio e quasi di sicuro era caduto. Questa era l’idea di Simone. La paura di averlo perso si mescolava con la speranza di vederlo vivo. L’incertezza gli aveva reso nuove energie. Quel ragazzo forse era lì, steso, magari solo ferito, a volte poteva capitare. Pensava: un colpo più leggero lo aveva tramortito ed era scivolato sotto quel groviglio di corpi inanimati. Sarebbe stato un bene, avrebbe evitato tutta quella carneficina. La compagnia militare aveva retto bene all’urto dell’assalto ghibellino. Tutti avevano combattuto con coraggio, senza rischiare oltre a quello che era possibile. Avevano tenuto le consegne, difeso quel ponte e dimostrato il valore guerriero del loro generoso popolo all’ammirazione di tutto l’esercito senese e dei suoi maggiorenti. Simone era stato un eroe e non lo sapeva, non gli sarebbe interessato per nulla, almeno fintanto che non avesse avuto la certezza che il suo giovane cugino era ancora vivo. In ginocchio dopo aver cercato ancora tra i tanti soldati, cadde sfinito in mezzo a loro in un profondo sonno. Capitolo V
Al mattino l’allodola del bosco
annunciò il giorno nel silenzio profondo del campo di battaglia.
Simone si risvegliò di soprassalto, in piedi dal dolore. Un corvo
gli aveva con un colpo del becco aperto la ferita del braccio
ricevuta nello scontro del giorno prima. Si guardò intorno. Lo
sguardo oltrepassò il campo fino alle cime dei bruni alberi lontani
e spioventi, immersi nell’aurora brumosa. Non un alito di vento. Si
guardò intorno confuso. Poi, riprese la sua ricerca. Un ragazzo che
pareva addormentato, prono e la testa sporca di fango, era pochi
metri più in là. “Luca!” intuì, e corse per pochi passi lasciandosi
cadere davanti a lui. Credo, sia difficile spiegarti, mio piccolo
passerotto, cosa Simone provò in quell’istante. Mi smarrisco ora in
un deliquio…Vorrei qualcuno fosse qui e, paziente, ascoltato le mie
parole, venisse in mio soccorso per quello che ancora provo
raccontando, dopo tanti anni, questa storia giunta al suo termine.
Qualcuno di voi, gentili signori, potesse sostenermi, e con tutto il
vostro cuore, là dove è più tenero e intimo. Capire…. Sentire…. Quel
calore che precede lo strazio, che inonda le vene e ferma il respiro
in gola fino a soffocare il pianto che più non può riscaldare il
volto di fratello e d’uomo tanto amato. Posava il capo sopra una
zolla, un guanciale d’erba bagnata dalla guazza. Piccoli e preziosi
cristalli di rugiada gli ornavano il capo con i riflessi del sole
mattutino. Nessun dolore pareva avesse provato. Era sereno, così mi
dissero. Una profonda ferita lo aveva trafitto in battaglia. Sopra
quella zolla pareva si fosse rifugiato, come i bambini che nel
freddo del loro letto, si stringono alle coperte ed hanno il capo al
petto chino. Il conforto del sonno, del sommo sonno dei misteri,
dove nessuno sa dove e attraverso quali sogni ci accompagni. Simone
raccolse il corpo di Luca e lo strinse a se fino al campo militare,
dove l’araldo lesse la lista dei caduti dell’una e l’altra parte,
com’era d’uso partendo dai nobili fino ai soldati semplici senza
nome. Siena era salva! - FINE - |
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